L’isolamento forzato e l’intimità condivisa

Isolamento sì, ma non troppo.

Le misure per contenere il contagio da un lato ci hanno distanziati, ma dall’altro lato ci hanno catapultato nell’intimità dell’altro. La Rete ci ha permesso di raggiungere distanze altrimenti incolmabili.

La didattica a distanza, le videochiamate, i corsi di formazione on line, lo smart working, le riunioni mediante piattaforme quali  Zoom (e tutte le sue sorelle) ci hanno fatto entrare nelle case altrui . A volte veniamo rapiti, non tanto dall’immagine del nostro interlocutore, ma da ciò che appare sullo sfondo; da quel libro, quella foto, quel quadro, quella pianta. Mostriamo la nostra intimità domestica e ne riceviamo altrettanta. Viaggiamo nelle case degli altri e ci affacciamo sulle loro esistenze , magari ci fantastichiamo un po’ e così impariamo a conoscerli meglio e anche a sentirli più vicini.

Partecipiamo a riunioni di lavoro con manager in felpa alle prese con bambini urlanti; sosteniamo esami proprio con quella professoressa che ci infonde un certo timore, ma scorgere dietro le sue spalle il nostro libro preferito ci trasmette una grande serenità e per questo motivo, adesso, ci fa anche meno paura.

I maestri sono entrati nelle case dei loro alunni, nelle loro camerette colorate che in un certo senso li rappresentano, sentono le voci dei loro fratelli e delle loro sorelle. Ogni tanto una nonna passa a salutare. Qualcuno si è anche laureato con la stessa identica dignità fiera di una seduta in presenza. Con l’abito elegante perché, anche se in streaming, l’occasione lo richiede. Con la casa immacolata e ordinata, perché in quel preciso istante diventa l’aula di un’università. Nulla può mancare: la coroncina d’alloro, il brindisi, la torta, il clima di festa con la famiglia.

È nata una nuova complicità, una nuova confidenza e non ce ne dimenticheremo facilmente.

Spesso ci diciamo quello che pensiamo, la paura di non sapere quanto durerà tutto questo e come sarà la ripartenza.

Desideriamo la stessa cosa: tornare alle nostre vite e guardarci in faccia, vedere le nostre reciproche reazioni e non solo le espressioni.

Il tempo si è dilatato, prima ci mancava sempre, ora ci avanza. L’emergenza Covid ha cambiato la nostra percezione del presente che sembra sempre più sospeso.

Siamo diventati tutti un po’ più simili in quel piccolo angolo di schermo con le nostre tute da casa.

Abbiamo capito che la vita era tale poiché si poteva  pranzare con i nostri amici, visitare una libreria, consumare un caffè al bar,  andare in giro per i negozi, vedere un film al cinema, una rappresentazione al teatro, invitare a casa nostra le persone care (o congiunte?), prendere un aereo, un treno, un pullman e chi se ne frega della noiosa e stancante fila che precede il viaggio.

Quando la vita tornerà forse avremo nei suoi confronti meno pretese o richieste pretenziose, o forse no. Ma di certo avremo acquisito con “l’altro” una nuova intimità.

2016: l’anno delle Cenerentole

In ricordo del Crotone in serie A.

Torna a risuonare tra le vie di Crotone, quello che era il manifesto della potenza sportiva dell’antica Kroton, che in un’indimenticabile Olimpiade di 2500 anni fa, vedeva nella finale dello “stadio” (i moderni 200 metri piani) la presenza di 7 finalisti della città della Magna Graecia ed 1 solo greco! Vince Eratostene, davanti a suoi 6 concittadini, relegando all’ ultimo posto l’unico ateniese e sarà così per circa 30 anni di dominio assoluto nelle gare e nell’arte della lotta, come testimonia l’ingresso nell’arena di Olimpia di Milone, atleta-lottatore crotonese alla settima vittoria, con un toro sulle spalle, impresa epica degna di Ercole e degna di questo Crotone calcio che ha saputo portare sulle sue spalle il peso di un torneo lungo, difficile ed ostico come la serie B, per poi posarlo ai piedi dell’altare e della storia.
Nessun’ altra città potrà mai ottenere tutti gli allori olimpici dell’antica Kroton, ecco in cosa possono rispecchiarsi i calciatori di questa rosa fantastica che hanno saputo tagliare un traguardo fino a ieri inimmaginabile e insperato, per la prima volta a 83 anni dalla fondazione della società. Ascendono così all’olimpo del calcio italiano, entrando nella storia di una piccola cittadina calabrese che spesso è dimenticata anche da sé stessa, ma grazie a questa splendida favola che come uno scrigno custodisce le radici e l’orgoglio di una comunità che non vuole che questa impresa non sia solo polvere o un mero esercizio di memoria, ma serva alla rinascita di un’intera regione.
Un miracolo calcistico, iniziato vent’anni fa, quando la squadra giocava in Promozione, e passato da decine di campionati in serie C, Dilettanti, Interregionali, e che la porterà a sfidare le grandi (e ricche) del calcio italiano, nonostante l’obiettivo dichiarato ad inizio anno della salvezza, raggiunta faticosamente l’anno precedente all’ultima giornata, e nonostante siano cambiati quasi tutti i protagonisti, con la classica formula della freschezza di giovani talenti delle grandi squadre (alcuni presenti nella Nazionale italiana durante questi Europei francesi come Bernardeschi, Florenzi, Pellè) e qualche calciatore d’esperienza nei ruoli chiave e, perché no, le idee tattiche di un tecnico spregiudicato.

La città è tornata in massa in piazza come quasi vent’anni fa, quando invase strade e vicoli per protestare contro la fine di un ciclo industriale che ha “regalato” a questa terra disoccupazione, cattedrali nel deserto e morte (incidenza di malati oncologici a livelli di Terra dei Fuochi, Porto Marghera, Taranto…), mettendo da parte i numerosi problemi per festeggiare sulle note dell’indimenticato menestrello locale Rino Gaetano, poeta malinconico e surreale che cantava gioie e disperazione degli ultimi.

È evidentemente l’anno delle “Cenerentole”, se si analizza sia il caso dei campioni d’ Inghilterra del Leicester che ha messo in fila squadroni “petroliferi” dal potenziale economico irraggiungibile (vedi proprietari del Qatar o Emirati Arabi) con una rosa di sconosciuti (ex operai, scarti di squadre europee) e un allenatore “normale”, l’italiano Claudio Ranieri da Roma, che si è fatto le ossa da calciatore e allenatore a Catania, Catanzaro, Cagliari (ancora Sud) per poi proseguire in squadre italiane ed europee di un certo blasone e anche nella nazionale greca. Per restare nell’attualità, in questo campionato Europeo appena concluso in Francia, la nazione ospitante ha affrontato nei quarti di finale la sorprendente Islanda, staterello di 330mila abitanti, e di pescatori orgogliosamente fuori dall’Europa politica, e che negli ottavi di finale si è scontrata contro gli inventori del football, loro che invece fino agli anni 90 non praticavano nemmeno il calcio per una semplice ragione: d’inverno le temperature rendono impossibile anche solo pensare di allenarsi! Da quel momento lo Stato ha investito nella costruzione di impianti al chiuso, riscaldati e in erba sintetica. I professionisti sono appena 100, di cui 23 sono stati impegnati in Francia agli ordini di un allenatore-dentista, e che hanno salutato a fine partita i loro 27mila compatrioti-tifosi che vivono in Francia (8% dell popolazione) con una danza che ricorda l’Haka dei Maori Neozelandesi.

Queste Cenerentole calcistiche, come l’immortale fiaba, ci ricordano che tutto si evolve continuamente in un perenne cambiamento e che tutto è in continua trasformazione… e che, come ne “a livella” di Totó, dove di fronte alla morte siamo tutti uguali, anche nello sport trionfi sempre il più bravo e non il più ricco e famoso.

Giusi Lo Bianco

Ecco, i social: chi si indigna, chi comunica, chi fa soldi.

Ha circa la mia età e non ha mai utilizzato i social. Con serena compostezza mi dice sempre che non li odia, ma che essere presente in un mondo virtuale non gli interessa. Io penso che invece tema di lasciarsi coinvolgere troppo, ma si sa che non c’è debolezza che vediamo negli altri che non ci appartenga.
Guarda moltissimi film (dagli anime di Myazaky al cinema d’autore polacco rigorosamente in lingua originale con sottotitoli in bulgaro antico), legge numerosi libri (“Guerra e Pace” gli pare troppo breve e incompleto) e si spolpa tre quotidiani al giorno (dal “Manifesto” a “Il Giornale”) ma, ciononostante, io che il mondo social lo abito comodamene apprendo le notizie sempre un po’ prima di lui non lasciandomi scappare l’opportunità di farglielo notare. Mai. Ogni tanto mi domanda qualcosa, tipo che differenza passa tra un cuore e un like, io gli rispondo che ognuno attribuisce il significato che preferisce, ma che addirittura taluni amori nascono con un cuore, talaltri si disintegrano e certi discutono animosamente, perché i cuori si sa, suscitano anche pericolose gelosie.
Recentemente mi ha chiesto qualche informazione su una tale Chiara Ferragni e su come fosse diventata tra le “influencer” più famose in tutto il globo terracqueo. Così gli ho mostrato il suo profilo Instagram e i suoi quasi diciotto (18!) milioni di follower. La sua espressione è stata tutto un programma, come quella di un vegano salutista davanti una macelleria della via Plebiscito! Un altro aspetto che secondo me era meritevole di approfondimento è stato quello dell’”indignazione”. Chi frequenta i social se è indignato per qualcosa sente il bisogno di comunicarlo affinché tutti lo sappiano. E così forse, dopo, si sente meno indignato.
Così, già che eravamo in ballo, preso da un’insolita curiosità social, mi ha chiesto di mostrargli il profilo di Giulia De Lellis e raccontargli cosa si dice in giro (per il mondo social) della sua attività di scrittrice che ha scatenato un putiferio di polemiche e… indignazione. In conclusione, sempre con quella gentile compostezza e con quel suo affabile sorriso, ma col tono grave dei discorsi importanti, mi ha detto: “Queste signore, un po’ come fai fu, utilizzano molto i social per comunicare. Solo che loro ci hanno pure ricavato un sostanzioso gruzzoletto”.
Giusi Lo Bianco

Già mi chiami gioia?

Primo collegio docenti. Una collega mai incontrata prima mi urta involontariamente e mi dice: “Scusa gioia”.
Giusi smettila di prenderti a “tumpulate” per capire se sogni o sei desta. Un’assoluta sconosciuta si è rivolta a te chiamandoti gioia.
È ufficiale, quest’anno insegnerai a Catania.
Tra le fortune che custodisco gelosamente nel mio patrimonio cosmico, quella a cui sono più affezionata è l’essere nata in una città del Sud nella quale la gente generalmente è parecchio disposta alle relazioni umane. Per struttura desossiribonucleica sono fortemente proiettata “all’altro” tanto da riuscire a socializzare anche con le pietre (anche le più introverse e asociali).
Le persone mi sono sempre piaciute, sono libri aperti che raccontano storie che io desidero leggere voracemente. Mi piace entrare nelle narrazioni altrui e la mia città si presta benissimo alla mia sete opulente di vita. Noi catanesi siamo un popolo prevalentemente estroverso, professiamo la libertà e anche la filosofia del “peace&love”.
Accade spesso di conoscersi e legarsi immediatamente, i neuroni si specchiano e, con sorriso affabile, tutto si conclude con un “a puttamu subutu a café” o forse, nell’attuale epoca moderna, addirittura ad apericena (che Dio fulmini il suo inventore!).
È una sorta di piacere catartico che ci godiamo con leggera incoscienza. Una tale impudica spontaneità si dirama anche nella nostra cifra stilistica. Basta davvero un attimo per darci del “caro”, “tesoro”, “gioia” e “dolcezza”, o il più diffuso “beeddaaa” (o beddu declinato al maschile). Non siamo una comunità che ha dentro introiettati misura e contegno, sarà per via del clima o per via dei numerosi popoli che hanno colonizzato anche il nostro habitat emozionale, ma Catania è così, basta scambiare venti parole per diventare amici. Non è comprensibile, non è giustificabile, forse neppure sano, ma non si può non subire il fascino di un tale trasporto, di un tale entusiasmo e della seduzione di questo scoprirsi.
È l’ineludibile destino di questo popolo.
Giusi Lo Bianco

Sogni al potere

C’era una volta un bambino che aveva un sogno, voleva diventare Presidente degli Stati Uniti per rendere il mondo più sicuro.
Forse la ricchezza che più sentiva di possedere era proprio la sicurezza, la fortuna di appartenere ad un mondo affettivo che lo proteggeva e quindi desiderava poterne far dono all’intera umanità. Nonostante i suoi sette anni quel bambino capiva che sicurezza, protezione e responsabilità sono strettamente connesse tra loro…immagina allora di “rispondere” al suo sogno con un impegno, desiderando di diventare qualcuno che possa avere le capacità e l’autorevolezza per realizzare il suo progetto. Quel bambino si fida di un tale ruolo istituzionale e gli attribuisce un compito quasi utopico, deve davvero crederci molto.
Una reazione educativa a catena insomma: una famiglia sicura e una scuola sicura lo hanno portato ad immaginare un mondo sicuro dove la leadership ha giocato un ruolo fondamentale.
Quindi che dire…una persona con questi ideali (E SOPRATUTTO SE MI NOMINA SUA VICEPRESIDENTE ) io la voterò a occhi chiusi!
Giusi Lo Bianco

Vergogna: la più nobile delle emozioni.

Tempo fa una persona che mi sta profondamente a cuore mi disse una cosa molto bella e le mie guance si tinsero di rosso.

La scorsa settimana sono arrivata a lezione in ritardo, indecoroso ritardo. Avendo addosso gli occhi di tutti sono diventata rossa come il sangue trasportato dai miei capillari.

Il rossore è un compagno costante della miavita e non passa mai inosservato. È evidentemente indispensabile per il mio sostentamento e trova con facilità un posto comodo dove insediarsi. Ho da sempre indossato l’imbarazzo sul volto per svariati motivi: dall’incapacità di contenere una vertigine di felicità assoluta, alla vergogna per qualche mia palese mancanza.

Ho realizzato, con un certo senso di compiutezza, che si tratta di un bene rarissimo, introvabile all’ipermercato e inesistente nel web. Ho capito che è una qualità che va custodita e restaurata nel tempo. Arrossire è una delle cose belle rimaste. La vita attuale disabitua al rossore, sia a quello dell’emozione sia a quello della vergogna. Non arrossiamo più per un complimento anche perché ne riceviamo in abbondanza e spesso sono privi di autenticità.

Abbiamo dimenticato le buone maniere per far spazio all’arroganza e al “tutto ci è dovuto”. Non ci vergogniamo di essere ineducati, incivili e sgarbati perché è più emozionante essere furbi.

Mi mancano i consigli delle mie nonne:

Intimo e calze sempre di qualità e in ottime condizioni, non si sa mai un pronto soccorso improvviso.
Questo non si fa o non si dice perché “pari mali” (sembra male, scortese).
Anche se dovessero aver torto i tuoi insegnanti hanno sempre ragione.

“Vergognati”, da quanto tempo non lo sentiamo più in bocca ai genitori al giorno d’oggi? Ai figli tutto deve essere concesso.

Siamo diventati sguaiati, pure nei social, prigionieri di un bisogno sfrenato di condividere anche ciò che dovrebbe abitare solo nella nostra anima.

Abbiamo perso il valore del pudore per sostituirlo con quello del clamore. Perché quello che abbiamo smarrito davvero è la nostra intimità.

Più scopriamo la nostra intimità, più il senso del pudore dovrebbe risvegliarsi.

Dove non ci sono né personalità né intimitàinvece il pudore diventa superfluo.

Diversi anni fa andai in vacanza ad Amsterdam, non ho abbastanza pudore da nascondervi che feci una passeggiata lungo la famosa strada a luci rosse. Una ragazza,grazie a una congiuntura rara quanto un’eclissi solare, dalla sua vetrina, si accorse che la bretellina del mio vestito scivolava lungo la spalla lasciando intravedere il reggiseno. Mi fece segno, con un sorriso complice e autorevole, di sistemarmi. Ebbe cura del mio pudore e della mia intimità, con un gesto di sussiegosa benevolenza, lì, da quella vetrina.

Giusi Lo Bianco

Se non ti ama chi amor ti dice, figuriamoci chi visualizza e tace.

Messaggio inviato con coraggio.
Attesa della risposta.
Quei puntini che ondeggiano…
Quei puntini di sospensione…
E se è vero che l’eternità non riusciremo mai a conoscerla di sicuro potremo immaginarla.
L’attesa di una risposta profuma di eterno e uccide tanto quanto l’idea di infinito.
È l’attesa di questo “sta scrivendo…” che fa impazzire chi aspetta una risposta. Siamo incapaci di attendere, di consegnare un pensiero e aspettare serenamente un’eventuale risposta. Eventuale.
Quando la risposta non arriva non sappiamo più cosa pensare. Per esempio, tra innamorati, forse andrebbe cambiata la strofa di “Teorema” “…chi meno ama è più forte si sa…” con “In amore, vince chi è online su WhatsApp e non risponde…”.
Effettivamente l’ultimo accesso su WhatsApp fa più danno di un paio di corna!
Questo (e altro) spiega la sensazione, tipicamente contemporanea, di trovarci in situazioni emotivamente devastanti che esistono solo nella nostra testa, come chi prende troppo sul serio questa app, come quel mio amico che qualche sera fa mi diceva: “Stando a WhatsApp un’amica è “Al cinema” da ieri sera. Ho avvisato i pompieri perché secondo me è rimasta chiusa dentro”.
Secondo un certo cliché, questa è l’epoca della “comunicazione istantanea”.
In realtà questo non è proprio esatto, la verità è che viviamo in un’era dove la comunicazione istantanea è possibile, ma grazie al Cielo non avviene sempre, grazie al Cielo l’attesa non è stata ancora sterminata.
C’è una speciale, solitaria malinconia nello sperimentare l’ansia e la tensione per l’attesa di una risposta.
La novità dell’era della comunicazione istantanea è che ci consente di gestire le conversazioni come meglio desideriamo.
Se non ci sentiamo sicuri del nostro lavoro, di quando e se andremo in pensione o di che fine farà il pianeta in cui viviamo, almeno possiamo decidere in assoluta libertà a chi permettere di entrare nella nostra vita e quando, eventualmente, rispondere a un messaggio. La spunta blu di WhatsApp può avere due significati: che il messaggio è stato letto o che è stato ignorato con successo. Facezie a parte, il problema è che gli svantaggi di questo tipo di controllo possono finire per superare i vantaggi. Un mondo in cui non abbiamo doveri nei confronti di nessuno è anche un mondo dove nessuno può vantare diritti nei nostri confronti.
In fondo è il prezzo della libertà, che non sempre libera.
In definitiva, se non t’ama chi amor ti dice, non t’ama neppure chi visualizza e tace.
(Quanto a voi, miei cari 25 lettori, leggetemi, perché mi accorgo se non lo fate.)
Giusi Lo Bianco

U pottamanciari

Uno dei tanti disturbi da cui sono affetta è la fissazione per i contenitori per il cibo a chiusura ermetica (o ermeneutica?), insomma per i “pottamanciari”. Tale tara genetica l’ho abilmente ereditata dalla mia nonna materna che ne possedeva di tutti i colori e di tutte le dimensioni. Lei, con i suoi pottamanciari, avrebbe potuto sfamare il mondo. Più sono colorati, più io mi intrippo malamente.
Nella mia cucina uno spazio sacro è dedicato ad essi.
Io farei follie per un pottamanciari.
Io potrei parlare ore e ore di pottamanciari.
È l’unico oggetto di cui, se lo presto, ne pretendo perentoria restituzione e, se mi prestano, non restituisco ottenendone la proprietà grazie allo strumento dell’usucapione.
Oggi, ahimè, mi è accaduto un fatto sconvolgente. Per liberarmi degli effetti devastanti dell’evento di cui sopra, provo a raccontarvelo. Mentre camminavo lungo le strade del mio paesello mi accorgo che davanti a me a un giovane uomo sta per scivolare un pottamanciari dal suo zaino aperto.
– Scusami, ti sta cadendo dallo zaino il porta pranzo.
– Grazie, ma tranquilla, il pranzo l’ho già consumato.
– Ma stavi rischiando di perdere un oggetto di pregevole manifattura. Fai attenzione, chiudi la cerniera.
– (Ride e mi guarda stupefatto) Ma non è di pregevole manifattura, ed è anche vecchio. Non fa nulla se lo perdo.
Seppur sbigottita dalla sua risposta, lo benedico e lo saluto raccomandandogli di avere cura di quel pottamanciari.
Io a sto tizio toglierei di gran cussa la patria potestà sui pottamanciari. Inutile sottolineare che l’ho seguito per altri svariati chilometri.
E adesso io ho un nuovo ospite nello spazio sacro della mia cucina…

Giusi Lo Bianco

Se c’è il sole o tira il vento “a tapallara”non si tocca

Da tempi immemorabili in piazza Cavour (per gli amici “u buggu”), sopravvissuta ai restauri “scapagniniani”, si erge superba e sprezzante, femminile e sensuale, la statua di una divinità greca: la dea Cerere.

No.

Si sarebbe confusa “che ciniri da muntagna” e a catanese unanimità diventò la dea Atena Pallade.

A invocarla, nell’urgenza delle intenzioni e aiutata dal nostro meraviglioso dialetto, per comprensibili artefizi fonetici, ecco a voi “a tapallera”.

Sempre stagliata lì contro il cielo, sia che ci sia sole sia che piova, con la presenza di catanese canicola quanto di  gelo chiaramente  importato, irremovibile dalle sue posizioni. E, soprattutto, sempre in mezzo alla gente.

Sia chiaro: apparentemente colei sta lì solo per farsi guardare, ma attentamente osserva lo struscio nello struscio.

“Grossa è, Don Angelo”! Esclamerà qualcuno, ma questa è un’altra storia…

Torniamo alla nostra Atena declassata per amore. Nell’antica Katane Ella era tra le pochissime figure femminili che potevano permettersi di esser sempre in giro senza che nessun osasse proferir verbo ingiurioso, se non il suo proprio nome: tapallara.

Impossibile insultarla e così la rabbia maschilista aveva come unico sfogo per la propria frustrazione il pronunciar bilioso del suo nome: “Si na tapallera”, illudendosi di offendere col proferir del nome come se Fetonte  avesse colpa di chiamarsi tale, mentre in realtà era “l’autista” del carro del Sole, mestiere dignitosissimo e soprattutto illuminante.

E orgogliosamente tante siamo le tapallare cui sopra.

Tra un aperitivo all’Una Hotel, un seltz limone e sale da Giammona, due linguine alle vongole alla Costa Azzurra, pane con formaggio, olive e vino al Nievski e un panino a’ via Plebiscitu , la scelta sarà solo di quell’istantaneo desiderio inattaccabile dagli sguardi dei “mummuriatori seriali”.

Ci vedrete da sole, a due a due, in gruppo, davanti Max Mara, ma anche a’ peschirìa, di giorno o di notte o in trasferta a Milano per un aperitivo sui Navigli o per una pipì da Tiffany.

Svettante dal piedistallo sul Borgo vi mando il mio primo caloroso saluto.

 

 

Giusi Lo Bianco

L’ansia di chi vive l’amore in un nome

È seduta di fronte a me, ne percepisco l’ansia, è un’anima inquieta e irrequieta. Qualcosa la preoccupa. Avrà circa 16 anni, 2 occhi verdi e grandi e i capelli spettinati. Se li può permettere, è bellissima, forse scompigliata lo è ancora di più. È fragile. Ha la testa bassa, guarda quel telefono, aspetterà una sua risposta. Non arriva. Scrive, scrive ancora. Io la vorrei abbracciare e le vorrei dire tante di quelle cose. Sto in silenzio sperando che dal Cielo le giunga ogni sorta di benedizione. Respira affannosamente. Il suo volto all’improvviso cambia, sorride! Ora ha gli occhi quasi lucidi, le ridono. Stringe il telefono tra le mani, rilassa la testa all’indietro. Adesso lei è felice e io lo sono per lei. Il cuore mi batte. Forse ha lo stesso ritmo del suo.
Le dico: – si è fatto attendere troppo?
Mi sorride e mi risponde di sì.
Vorrei dirle tutto quello che so sull’amore. Non lo faccio.
– Come ti chiami, le chiedo.
– Anna, mi risponde.
– Anna, cosa sai dell’amore?
– Roberto. Questo è tutto quello che so dell’amore.

Parlo d’amore con una gaudente sedicenne, iperbolica e scapestrata. Sospiro! Penso che sia un periodo meraviglioso, lei mi sembra appagata e sognante e la sua adolescenza piena e dissoluta. Siamo su due lunghezze d’onda diverse, io inseguo la mia coscienza e aspiro alla consapevolezza. Mi intenerisco guardandola fremente, piena di lui e della sua scompostezza. Lei trema. Sento tanta vita. Età ispida e inquieta, senza contezza dei rischi e delle conseguenze delle proprie azioni. Ho l’impressione che si dedichi ad attività autodistruttive e sconsiderate che, lei non lo sa, le lasceranno tracce indelebili. Io alla sua età non facevo altro che riempire diari rilegati di pensieri apocalittici e sognavo di essere Jane Austen. Ora la guardo piena di tenerezza. Non sa cosa le spetta. Il suo amore è capace di evocare tenebre e perdizione. Ignora che l’amore richiede cura, tempo, passione, energia. Eppure, ama.

Giusi Lo Bianco

Il sapiente uso del tempo ci aiuterà ad invecchiare

Catania è un grande paese nel quale, nonostante ci si conosca davvero in tanti, si ha sempre l’opportunità di incontrare qualcuno di nuovo e caratteristico.

Lei è Sara, un’anziana signora seduta in una grande sedia a dondolo. Ha i capelli bianchi e le guance lisce. Accanto a lei c’è un tavolino con quello che le è necessario: alcune riviste, diversi libri, taccuino e penna e un vassoio di cioccolatini. È stata una professoressa di italiano e sembra una che ha scritto tanto e che ha vissuto un’iperattività sociale, culturale e ricreativa.

Profuma di inchiostro, acqua di colonia e vaniglia e adora ascoltare le nipoti studiare letteratura e ripetere le poesie a memoria.

È una catanese doc è ha tutta l’aria di essere una creatura capace di mixare ironia, tragedia e melodramma.

– Quando si invecchia, cara Giusi, i difetti, le paure e le ansie si amplificano fino a diventare la caricatura di noi stessi.

Sarà vero? Siamo davvero destinati a un’inesorabile e inevitabile involuzione?

Spero di no.

È rincuorante credere che sì ci sarà tanto buio, ma anche tanta luce.

Una cosa è sicura: il nostro percorso involutivo o evolutivo dipenderà di certo dal nostro cammino e dalla nostra capacità di coltivare con entusiasmo le nostre inclinazioni e le nostre follie.

Forse il segreto è un uso sapiente e fantasioso del tempo con la consapevolezza che il nostro tempo è un bene collettivo, mai solo nostro.

Mi piace anche pensare a quanto sia possibile costruire, lavorare, prevenire, imparare a conoscere i lati oscuri e procurarci candele per illuminarci anche nelle tenebre più fitte.

Quasi quasi comincio a guardarmi dentro e temo che un giorno i miei difetti possano diventare invalidanti per me e per chi abbia la (s)ventura di starmi accanto.

L’aver conosciuto Sara mi fa ripromettere di lavorare su me stessa a beneficio dell’amabile vecchina che voglio diventare.

Giusi Lo Bianco

 

 

La libertà dell’indipendenza

La mia nonna paterna, donna indipendente e dall’inconsapevole femminismo, era la moglie del calzolaio del quartiere. Non ho mai conosciuto il mio nonno paterno, ma, da ciò che mi raccontano, il gene sacro dell’autoironia l’ho ereditato da lui, dal calzolaio del quartiere San Berillo.
La mia nonna paterna da bambina mi ripeteva sempre: “a nunnuzza u megghiu maritu è u travagghiu, è u travagghiu ca ti fa libera”.
Da ragazzina il mio prof di lettere, il mio primo amore, mi ripeteva sempre: “Giusi leggi, leggi più che puoi, perché è la cultura che ti renderà libera”.
Io poi ho fatto 2+2 e sono arrivata alla conclusione che il lavoro e la cultura mi avrebbero resa libera.
I soldi non dispiacciono a nessuno: non si miete il grano senza aspettarsi una ricompensa.
Ma non sono i soldi a renderci liberi.
Sono il lavoro e quel che sappiamo a renderci liberi.
Io l’avrei detta così. E forse anche un calzolaio…

Giusi Lo Bianco
#chiacchiereefilosofia

La pipì più emozionante della mia vita

Le gioiellerie Tiffany sono tra i posti più emozionanti al mondo per me, pure fare la fila lì non mi dispiace, perché adoro osservare le persone che parlano con i commessi, che spiegano il gioiello che desiderano comprare. Ascolto più persone possibili e cerco di immaginare le loro vite e le loro storie. Quello del gioielliere è un mestiere che mi affascina moltissimo perché trovo che in una persona che voglia comprare un gioiello o lo voglia regalare ci sia tantissima energia che poi si fonde con quella del gioiello stesso. Quindi i gioiellieri dovrebbero essere profondi conoscitori dell’animo umano. Tutta questa poesia però oggi è stata, come dire, contaminata perché mi è scappata la pipì. Sì. Dopo aver acquistato la mia scatolina verde Tiffany dovevo andare urgentemente in bagno. Che fortuna! Vuoi che Tiffany di Via Della Spiga a Milano non abbia un super bagno dove non occorra fare l’acrobata contorsionista per non morire di tifo? “Ma certo signora, prego la faccio accompagnare”. “Ma no, non occorre, stia tranquilla, vado da sola”! Ed ecco che un omone vestito da gran galá con la cravatta dello stesso colore del mio nuovo gioiello mi fa segno di seguirlo. “Prego, al piano di sotto”. Scendiamo le scale e mi mostra il bagno. La cosa più agghiacciante è stata percepire che l’homo Tiffanus stava lì ad aspettare che io finissi. E averne avuto conferma una volta uscita dal bagno è stato ancora più raccapricciante. “Grazie, è stato molto gentile”. Forse Tiffany è eccessivamente attenta ai “bisogni” della clientela.

Giusi Lo Bianco

 

#cuochirobotici

In questa autunnale domenica d’estate mi è parso saggio e terapeutico abbandonarmi a una singolare arte culinaria. Singolare in quanto è politicamente corretto precisare che si tratta di un bluff. Tra gli appassionati di cucina esiste una categoria, di cui faccio parte a pieno titolo, che merita di certo una riflessione: quella dei cuochi robotici.

Costoro hanno subito il fascino perverso e irresistibile dello storico aggeggio infernale tedesco che praticamente “fa tutto lui”. Tu devi solo seguire le istruzioni. Metti dentro gli ingredienti, regoli tempo e velocità ed escono fuori delle squisite meraviglie. Succede anche che chi gode delle meraviglie di cui sopra ti dica pure brava, cucini benissimo! 

Ora io penso che tutti noi cuochi robotici utilizzatori dell’aggeggio dobbiamo delle umili scuse a chi, per lavoro o per diletto, si impegna con costanza e responsabilità a soffriggere, saltare, mescolare e impastare con una certa poesia.

Quell’aggeggio infernale, perverso e tedesco, dal marketing multilivello, è una vera grazia. Se esistesse una roba del genere pure nella vita con tutte le ricette che ti suggeriscono come affrontarla nel modo giusto sarebbe una vera… 

sarebbe un vero bluff. Si impara sbagliando e sono le ricette che uno si inventa quelle che funzionano meglio di tutte. Onore ai cuochi veri.

Giusi Lo Bianco

Se vuoi amare selfati

Avete capito benissimo: oggi è la giornata mondiale dei selfie.
Ogni giorno è una giornata mondiale di qualcosa: della lentezza, della felicità, della poesia e oggi si celebrano i selfie.
Il mio pensiero va (lo sapete che il mio animo da crocerossina salvatrice del mondo è prevaricante nel mio Io) a chi i selfie non se li fa mai.
Non ho competenze psichiatriche, quindi non mi chiedo neppure quale sia il loro vero problema.
5 minuti di silenzio per chi:
– è la perfetta antitesi della fotogenia, quindi il selfie lo sogna di notte;
– per coloro i quali fanno mille prove, ma una proponibile non gli risulta mai;
– per chi ha paura che gli altri lo prendano per cretino e gliene importa qualcosa;
– per chi non ha il tempo di farsi i selfie;
– per chi non si diverte “selfandosi”;
– per chi non si prende in giro;
– per chi si prende sul serio;
– per chi ancora crede che i “selfisti” siamo problematici (siete i miei preferiti);
– per quelli che ci analizzate ( vi amo alla follia).
Selfatevi e fate ciò che volete.
Un selfie salverà il mondo.
Fatevi i selfie e non la guerra.
Pensate a selfarvi e non a censirvi.
Se vuoi amare selfati.

Giusi Lo Bianco

Grazie!

Oggi si conclude la mia prima campagna elettorale che, qualunque dovesse essere l’esito, rimarrà custodita amabilmente nello scrigno dei miei pensieri felici.
Porterà con sé gastrite, colite, insonnia, speranza, caffè consumati al Bar in quantità infinitesimali (tanto che la caffeina ha sostituito il plasma), sogni e coronarie gonfie come zampogne
(la pressione arteriosa non l’ho misurata, preferisco vivere).
Vi ho cercati ovunque, realmente e virtualmente, ho gridato al mondo sangregorese: “Sono Giusi, amo scrivere, insegnare e la politica è la mia passione.
Ci sono e voglio rappresentarVi”.
Mi sono sforzata di metterci meno pancia e più cervello, di razionalizzare, di essere lucida e distaccata. Come sempre tutto ciò si è rivelato inutile! La mia visione romantica e trasognante della vita ha dominato ancora una volta la mia esistenza. Ogni stretta di mano ha rappresentato tanto, con alcuni di voi è persino nata un’amicizia, altri hanno imparato a conoscermi attraverso gli articoli del mio blog “Chiacchiere e Filosofia” e nella testata giornalistica telematica “Acicastelloonline”, altri infine non hanno dimenticato i miei 18 mesi di lavoro in qualità di assessore proprio nell’Amministrazione uscente.
Ci ho messo l’anima e il cuore capitanata dal mio super papà che è riuscito a colmare l’incolmabile distanza di 1.367,70 km. Comunque vada sarà un successo perché quella visione romantica, innamorata e in perenne ricerca dell’incanto è ancora viva, talmente viva che sono pienamente convinta che tutti coloro che mi hanno promesso di scrivere il mio nome sulla scheda elettorale lo faranno davvero!

Giusi Lo Bianco

Tra moglie e marito…metti la suocera!

Chi conosce mio marito sa che dire che veste con abbigliamento sportivo è un eufemismo.
È molto curioso spesso quando andiamo in giro, io ca pari ca aia gghiri o’ festival di Sanremo e lui ca pari ca sta ghennu a fari a rivoluzione castrista e maoista!
Comunque fondamentalmente il mondo ci(lo) accetta così, forse lo facciamo divertire pure il mondo e penso anche che mio marito una donna che si abbiglia come lui non l’avrebbe neppure guardata.
Potete ben immaginare che si doti di qualche accessorio che la sottoscritta considera “improponibile”. L’ultimo che ha suscitato profondo orrore ai miei occhi è stata una tracollina stile venditore di fumo di Kingston o seguace della musica di Bob Marley ridotta allo sfinimento. Dire che sia usurata sarebbe lo stesso eufemismo cui sopra.
Respira Giusi, respira! Se la disprezzi e gli dici di buttarla non lo farà mai. Lo sai che ti fa “crepare” sempre. Suvvia Giusi, sei una diplomatica, una mediatrice, strategia! Ci vuole strategia. Pensa! Prima di parlare pensa! Cervello in azione.
La chiave è sua madre! Sì! Mia suocera che è una donna dall’indiscutibile eleganza e raffinatezza preferirebbe le peggiori torture piuttosto che apparire fuori posto! E lo stesso desidera per la sua prole! E quindi con tono quasi disinteressato gli dico:
– Se tua madre sapesse che indossi una cosa del genere, le spezzeresti il cuore.
Amici miei adesso la tracolla è nell’unico posto degno di lei: l’indifferenziata.
Donne di tutto il mondo rassegniamoci: mai potremmo arrivare dove arriva la madre di lui!

Giusi Lo Bianco

Buona festa mamma Lina❣️

Voi tutti mi conoscete come una donna fresca e indipendente che non deve chiedere mai.
Eppure uno dei mie scheletri nell’armadio è (fino a questo scritto odierno) che sono stata una bambina mammolina di stampo patologico di chiddi di pigghiari a manati. Sin dalla nascita sono stata “lo zainetto” di mamma Lina (sì io la chiamavo per nome comune e proprio, non tralasciando mai nulla). Ero così rompi balle da non lasciarle il benché minimo respiro. Sappiate bene che il primo giorno d’asilo è stato per me l’anticamera dell’inferno.
– A picciridda è nica (3 anni di cristiana per l’asilo non è nica), meglio l’asilo privato sotto casa per tenerla sotto controllo.
Dopo qualche ora a picciridda si ni scappau ed è tornata a casa come se nulla fosse accaduto: “mamma aprimi subito, io lì non ci voglio stare; con te! Con te! Io voglio stare solo con te!”
Dopo il trauma causato dalla demente alla famigliola, si decise di rimandare l’ingresso all’asilo a gennaio, ca a picciridda fa quattr’anni e si fa chiu grannuzza e speriamo ‘n pocu cchiù spetta. Risultato: l’ansia mi divorava viva già da Natale perché tutti gli psicologi provetti che incontravo non facevano altro che ripetermi:
– Giusina che bello, tra un po’ vai all’asilo con gli altri bambini e bambine, ti divertirai un mondo. Non sei felice? E certo, ero felice e solare come Mercoledì della famiglia Addams. Io voglio stare solo con mia mamma. Ma chi mi stati cuntannu!
Ordunque quel giorno di terrore arrivò, le mie crisi sconvolsero e commossero l’intero circolo didattico e allora concessero il permesso a mia madre di stare sotto la finestra della mia classe come un piantone armato fuori dalla casa di un ministro della Repubblica.
Sicuramente venni considerata una bambina fuori di testa (quale in realtà ero) e per non peggiorare la condizione di follia pensarono che quella fosse la giusta soluzione (meglio assecondarla la piccola svitata)
Così, per lunghi 15 giorni, quella “povera Crista” di mamma Lina stette sotto la finestra dell’aula in modo che io a intervalli regolari degni della migliore delle follie infantili potessi accertarmi che lei ci fosse.
Un bel giorno poi venne trovata la soluzione dal moderno Freud che solo casualmente coincide con la persona di mio padre che con delicatezza e accortezza mi disse: “sta storia a finiri, dumani t’accumpagnu iù e si fa comu ricu iù! Il resto della storia non ve lo racconto perché oggi è la festa della mamma e le soluzioni pedagogiche di mio padre sarebbero fuori tema.
Diventai una scolaretta d’asilo adorabile e alle recite ero sempre protagonista. 😉 E comunque per non perdere l’abitudine abito un paio di metri sopra l’abitazione della mia mamma, perché quando al mattino mi affaccio dalla finestra appena sveglia anziché il Sole, la luce che possa vedere per prima sia il suo viso, laggiù a sistemare le sue piante… buona festa mamma Lina.

Giusi Lo Bianco

 

Se non mi voti mi cancello…

L’amore è bello finché lui o lei risponde al messaggio un nanosecondo dopo che l’avatar o la spuntina blu ci danno l’ansioso annuncio: l’ha letto!
E ora, se la risposta non giunge celermente, sono guai per il sistema neurovegetativo di chi attende!
Ci si azzanna il cervello con le peggiori tossine emotive e si comincia a fantasticare sul peggio del peggio.
Ma, cari miei 25 lettori, vi giuro che esiste qualcosa di ancora più sconvolgente.
Se il/la vostro/a desiderato/a non soddisfa le vostre aspettative e nel rispondere vi fa aspettare troppo tempo, avete milioni di altre opportunità. Insomma, al mondo siamo circa 7 miliardi, volete non trovarne un altro che vi risponda in 3 secondi (che noia! Ma fatti vostri!)? Quello che sto cercando di dirvi è che in campagna elettorale è decisamente peggio! In amore avete tutto il mondo a disposizione, in campagna elettorale no!!!!! No! No e no! In campagna elettorale ci sono solo i residenti votanti e, belli miei, una volta che vi rifiutano quel voto è perso! Perso per sempre!!
Ditemi se non è peggio dell’amore…senza risposta!
Vi spiego come funziona!
Inutile negare che oggi la campagna elettorale si svolge in due mondi paralleli: il mondo vero (vero?) e quello virtuale. Capita sovente quindi di trovare qualche contatto utile sui social. Quindi si scrive al suddetto contatto (leggasi: futuro elettore) presentandosi nel migliore dei modi cercando di non apparire una stalker, un’attraccatrice seriale, una politicante da quattro soldi. A volte la conoscenza virtuale va a buon fine e si conclude con un caffè e tanta tanta speranza.
Ma quando non rispondono è una tragedia…
Quando l’avatar ti comunica: “l’ha letto” e non ricevi risposta ti cominci a macinare i neuroni.
Ancor peggio è quando ti rispondono: “mi dispiace, ma sono già impegnato”.
Signori miei la politica è più tormentosa dell’amore e alla fine tutti e sempre cerchiamo qualcuno che ci scelga!

Giusi Lo Bianco

Accupai!

Camminavo a 10 km all’ora, ncupunata ca manco se fossimo stati nella Bielorussia più cruenta e oggi ad Alesssandria c’era bellu suli siculo e con una borsa ca pareva contenesse dui picciriddi obesi di otto anni all’uno.
Con la spalla atrofizzata per il peso eccessivo della mia borsa mi fermo finalmente in un beato semaforo pedonale; ero tutta accaldata e, ribadisco, ncupunata comu na scimunita; poso la borsa per dare sollievo alla mia spalla scomposta e mi scappa un “accupai”. Vicino a me un cristiano sulla sessantina mi guarda con gli occhi pieni di giubilo magico e mi dice: – oggi s’accupa! In quell’”oggi s’accupa” io ho visto la presenza della Mano di Dio sulla mia testa, che mi dice:- bella mia devi sgobbare e schiattare, ma ogni tanto qualche aiutino io te lo mando.
– Ma che ci fai qui?
– È la lunga storia di un algoritmo, comunque non lo so che ci faccio.
Lui era Saro, gelataio di Paternò immigrato vent’anni fa.
E ancora, quannu avi cauru, accupa!

 

Giusi Lo Bianco

Eta est solliciti plena timoris amor!

È seduta di fronte a me, ne percepisco l’ansia, è un’anima inquieta e irrequieta. Qualcosa la preoccupa. Avrà circa 16 anni, 2 occhi verdi e grandi e i capelli spettinati. Se li può permettere, è bellissima, forse spettinata lo è ancora di più. È fragile. Ha la testa bassa, guarda quel telefono, aspetterà una sua risposta. Non arriva. Scrive, scrive ancora. Io la vorrei abbracciare e le vorrei dire tante di quelle cose. Sto in silenzio sperando che dal Cielo le giunga ogni sorta di benedizione. Respira affannosamente. Il suo volto all’improvviso cambia, sorride! Ora ha gli occhi quasi lucidi, le ridono. Stringe il telefono tra le mani, rilassa la testa all’indietro. Adesso lei è felice e io lo sono per lei. Il cuore mi batte. Forse ha lo stesso ritmo del suo.
Le dico: – si è fatto attendere troppo?
Mi sorride e mi risponde di sì.
Vorrei dirle tutto quello che so sull’amore. Non lo faccio.
– Come ti chiami, le chiedo.
– Anna, mi risponde.
– Anna, cosa sai dell’amore?
– Roberto. Questo è tutto quello che so dell’amore.
Era est solliciti plena timoris amor!

Giusi Lo Bianco

Bentornato a casa Vincenzo Bellini

La notte di Capodanno ha visto la mia città (finalmente) dedicare il giusto tributo al suo figliolo più illustre, un compositore morto giovane che ha fatto conoscere il nome di Catania in tutto il Globo e che, con lo spettacolo che i miei occhi e quelli di tanti altri concittadini e non, si è visto omaggiato con una rappresentazione unica nel suo genere, che ha visto la città con le sue piazze, il suo Barocco, gli edifici storici “vivere”, cantare, danzare.

Il tutto condito da funamboli che fluttuavano a mezz’aria disegnando evoluzioni difficili da dimenticare e che hanno riempito gli occhi e il cuore, mentre giochi di luci e proiezioni sul Municipio, sabato notte come non mai, restituivano al Palazzo di città applausi al suo indirizzo difficili da ottenere in questi ultimi anni…

Bentornato a casa Vincenzo Bellini

Giusi Lo Bianco

Adolescenza 2.0

CATANIA – Entra in maniera quasi anonima, saluta velocemente, è incappucciata fino al collo, si chiude in bagno accompagnata da due coetanee. Dopo qualche minuto esce dal bagno, non ha più nulla di anonimo, sfoggia un magnifico vestito che indossa con invidiabile portamento, lunghi e setosi capelli nero corvino e tacchi a spillo… si butta nella mischia sorridendo e con una certa sicurezza che non esita a mostrare.

Un normalissimo venerdì sera, festa di compleanno di una ragazza che compie 16 anni…

16 anni, cosa vuol dire oggi avere 16 anni?

Ci avviciniamo a un ragazzo, gli chiediamo con tono scherzoso se è un teenager, ci risponde sorridendo e con tangibile delicatezza: “In realtà non sono più un -teen, ho già 20 anni, ma… alla fine non cambia molto”. Ci parla di sé e dei suoi sogni, studia all’Università Scienze Motorie e lavora insieme al padre in un negozio. È un appassionato di tecnologia e informatica. Stando a lui, tutto ciò che si sente sugli adolescenti di oggi – confusi, apatici, senza valori, senza sogni – è solo una grande bugia. Al contrario ci sembra molto consapevole, lucido, determinato. “Viviamo in un periodo troppo difficile, so benissimo che per raggiungere buoni risultati sia nello studio sia nel lavoro dovrò faticare moltissimo e lavorare sodo come fanno ancora i miei genitori e hanno fatto i miei nonni”.

Intanto i ragazzi e le ragazze ballano, i tacchi altissimi vengono sostituiti da comode scarpe da tennis, non si rinuncia al divertimento, anche se questo significa mettere da parte per un po’ l’eleganza e l’essere alla moda.

“Non verranno servite bevande alcoliche stasera, siamo molto attenti sotto questo punto di vista, neppure nella torta c’è alcool, tanti ragazzi torneranno a casa soli con i loro motorini e le loro mini car, non sarebbe né legale né prudente, nell’esame del palloncino basta una piccola quantità di alcool per essere valutati brilli” ci dice la giovanissima madre della festeggiata.

Sono tutti sorridenti e integrati, qualcuno proviene dall’altra parte del mondo ed è in Sicilia grazie ai progetti INTERCULTURA. Cantano in coro, fanno il trenino, scherzano tra loro. Si respira un ambiente sano, sono tutti affettuosi tra loro, si abbracciano, si portano cibo e bevande a vicenda, si prendono affettuosamente in giro… qualcuno si scambia sguardi inequivocabili… sembra innamorato!

Adesso ci avviciniamo alla festeggiata, che ci appare felice e bella più che mai, dona un po’ di sé a tutti i suoi amici, non trascurando la sua famiglia e i parenti presenti. Le chiediamo di parlarci di lei, dei suoi sogni: “Essere adolescenti non è così facile come sembra, noi giovani siamo sempre posti davanti a problemi che per gli adulti possono sembrare banali ed insignificanti, ma per noi corrispondono ad un qualcosa che ci provoca angoscia, tristezza e malumore.
Mi hanno sempre chiesto cosa volessi fare da grande permettendomi di far sbizzarrire la mia fantasia, ma più divento grande e più capisco che il Paese dove vivo non permette di realizzare qualunque risposta io avessi dato, anzi, ne limita la maggior parte. I nostri politici sono dei buoni a nulla il cui obiettivo è arricchirsi senza preoccuparsi delle persone che hanno riposto fiducia in loro. Proprio per questo motivo ho sempre sognato di andare via di qua, di andare a vivere in un posto dove io possa sfruttare le mie conoscenze linguistiche dopo anni di dedizione e studio e dove possa avere un futuro ricco di grandi cose. La società in cui vivo non mi piace… Cosa posso pensare vedendo la delinquenza in ogni sua parte ogni giorno, vedendo persone che hanno dedicato anni a studiare e che devono vedersi sbattere le porte in faccia perché raccomandati incapaci vengono prima di loro, vedendo politici ricchi dormire in aula e persone che cercano lavoro disperate perché non possono dare da mangiare ai figli? Qualche mese fa, durante uno stage all’estero, mi è capitato di incontrare delle persone del luogo che, nel momento in cui hanno capito che io ero siciliana, non hanno esitato a dire – Sicily? Mafia ahahahahah – come si dovrebbe sentire una ragazzina di 16 anni davanti a queste affermazioni?”.

Con un po’ di amarezza ascoltiamo le sue parole, forse avremmo potuto consegnare a questi ragazzi un mondo migliore, ma siamo certi e fiduciosi che loro se lo sapranno costruire da soli.

Giusi Lo Bianco

Marco Travaglio al Metropolitan di Catania

CATANIA – “Erede di Montanelli”, “comunista”, “amico di Santoro”, “antiberlusconiano”, “fascista”….sono solo alcuni dei nomignoli che negli anni sono stati affibbiati alla penna (probabilmente) più arguta e sferzante del giornalismo italiano degli ultimi vent’anni.

E cioè il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio, che da qualche mese porta in scena nei maggiori teatri italiani “Slurp”, tratto dall’omonimo libro dello stesso autore, nel quale attacca, con la consueta satira, politici, opinionisti, intellettuali, ma soprattutto giornalisti, una categoria professionale per troppo tempo al servizio di potenti del momento, dagli anni Venti ai giorni dell’era renziana (strepitoso il parallelo iniziale tra i proclami della propaganda fascista nei confronti delle attività sportive del duce e gli articoli di certa stampa e programmi della televisione pubblica a favore di Renzi!).

Sabato 5 marzo, presso il Metropolitan di Catania, in compagnia dell’attrice Giorgia Salari, il giornalista torinese ha incantato il numeroso pubblico, incollandolo alle poltrone (come fanno i politici con le loro, direbbe il Nostro) e esibendosi in una autentica lezione di Storia Contemporanea e di giornalismo, segnando nettamente il confine tra il vero giornalista, cioè quello che funge da cane da guardia della democrazia per informare l’opinione pubblica, fa le pulci al potere, e il giornalista cortigiano, che pur di ben figurare col padrone o col potente di turno è disposto a rimetterci la faccia, la dignità e la deontologia professionale, anche rimangiandosi quanto scritto pur di non scontentarli se essi stessi cambiano idea.

Spettacolo ironico, divertente, per nulla scontato, anzi riflessivo poiché invita a vigilare sull’informazione italiana che, anziché garantire a tutti noi un servizio eccellente, scrive articoli o manda in onda servizi celebrativi della classe dirigente del Paese.

Nelle circa 2 ore di esibizione i 2 artisti non risparmiano nessuno, poiché i giornalisti che scodinzolano ai piedi dei potenti non fanno distinzioni di colore politico, dai 3 governi Berlusconi, ai 2 di Prodi, a quelli di Monti e Letta nipote e, dulcis in fundo, quello del rottamatore Renzi….

Gli applausi finali sanciscono il successo dell’opera che, come l’autore stesso scrive nell’omonimo libro, dedica “…a chi usa la lingua per parlare, denunciare, per urlare, per fare pernacchie…”

Giusi Lo Bianco

Specchio specchio dei miei neuroni…

Sguardi che si incrociano, vibrazioni, emozioni perfettamente sintonizzate, stesso equilibrio, stesso squilibrio. È la chimica degli incontri, dei rapporti interpersonali, è l’empatia.

Dal greco empatéia, la parola è composta da en (dentro) e phatos (sofferenza o sentimento). Il termine veniva usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’aedo col suo pubblico; oggi l’empatia non solo è la componente principale di una relazione, ma è soprattutto uno strumento prezioso in qualunque ambiente, sia nella sfera personale sia in quella sociale. Chi possiede questo dono, innato o acquisito nel tempo lavorando su sè stesso, è molto fortunato perchè è capace di identificarsi con lo stato d’animo di un altro individuo, senza necessariamente fare ricorso alla comunicazione verbale; è fortunato perchè la sua comunicazione sarà sempre chiara ed efficace.

È la chimica? È la pancia? È il cervello! Sono neuroni che si specchiano. Quando incontriamo una persona dolce, dai modi gentili, sorridente e disponibile i nostri neuroni si specchiano.

I miei riconoscono nei suoi la mia dolcezza, la mia gentilezza, la mia disponibilità, il mio sorriso, il mio dolore. Se invece mi confronto con una persona chiusa, sfidante e ostile immediatamente sento la mia chiusura, il mio senso di sfida verso l’altro, la mia ostilità. Qualunque siano le emozioni che percepisco nell’altro è sempre il mio sentire che si attiva.

Immensamente affascinante la scoperta dei neuroni a specchio dello scienziato italiano Giacomo Rizzolatti. Semplicemente meravigliosa la capacità che ha il nostro cervello di attivare gli stessi neuroni che in un determinato momento sono attivi in chi ci sta di fronte. Le manifestazioni emozionali che osserviamo nell’altro attivano il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione. Tutto ciò significa che esiste un meccanismo naturale e biologico che ci mette in relazione con gli altri… il nostro cervello sceglie, a prima vista, i neuroni in cui specchiarsi.

Giusi Lo Bianco

L’intelligenza del cuore

Quando lessi per la prima volta “L’intelligenza emotiva” di Daniel Goleman rimasi basita nell’apprendere che la mia emotività è governata da un piccolo gruppo di strutture interconnesse a forma di mandorla che prendono il nome di “amigdala” (che in greco significa appunto mandorla).
La nostra amigdala, posta sopra il tronco cerebrale, è infatti una specialista infallibile di questioni emozionali…
Vi rendete conto? A capo del nostro universo emotivo, più o meno turbolento, c’è una specie di mandorla!
Se venisse rimossa dal resto del cervello il risultato sarebbe un’evidentissima incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi; oserei definire una condizione del genere “cecità affettiva”, una specie di perenne apatia!
La vita senza l’amigdala è un’esistenza spogliata di significato personale.
Tutte le nostre passioni dipendono da questa mandorlina dispettosa… insomma una sorta di sentinella delle emozioni capace, all’occorrenza, di sequestrare il cervello e farci vivere l’emozione del momento: rabbia, paura, ansia, gioia, allegria, in maniera totalizzante.
Questo grilletto molto sensibile, e talvolta anche dispettoso, analizza ogni esperienza e va…come dire…a caccia di guai!
Ma Dio, nell’aver progettato l’architettura del nostro cervello, nella sua assoluta perfezione, ha dato un ruolo fondamentale alla neocorteccia, con le sue funzioni molto più raffinate dell’amigdala, in quanto riveste il compito di elaborare le informazioni attraverso vari livelli di circuiti cerebrali prima di poterle percepire in modo davvero completo ed iniziare la sua risposta decisamente non istintiva ed emozionale, ma razionale.
Una vera battaglia quindi tra l’amigdala, che lavora per scatenare una reazione ansiosa ed impulsiva, e le altre aree del cervello che si adoperano per produrre una risposta correttiva, più consona alla situazione.
Cari lettori vi ho appena presentato l’eterno conflitto tra mente e cuore!
Non c’è vincitore né vinto in quest’affascinante battaglia… intelligenza ed emozioni se la caveranno solo alleandosi… solo
l’ intelligenza del cuore genera nella persona equilibrio e possibilità di essere felice…
Esistono quindi due intelligenze: quella razionale e quella emotiva.
Il nostro modo di comportarci è determinato da entrambe, non dipende solo dal quoziente intellettivo, ma anche dalla capacità di riconoscere e gestire le nostre emozioni, quindi dall’intelligenza emotiva.
Non possiamo vivere senza ragione, ma nemmeno senza emozioni… ma se riusciamo a trovare il giusto equilibrio tra le due componenti raggiungeremo l’ armonia tra la mente e il cuore… e faremo un uso intelligente delle emozioni!
Nel mio lavoro di insegnante e nella mia vita tutta in genere l’intelligenza del cuore ha un ruolo fondamentale… lavoro su me stessa da quando ho piena consapevolezza dei miei stati dell’io ed educo tutti i giorni le mie alunne e i miei alunni ad essere “persone” e a mettere insieme mente e cuore.
Il più importante contributo che la pedagogia può dare allo sviluppo di un bambino è quello di educarlo all’autoconsapevolezza, all’autocontrollo, all’empatia, all’ascolto,alla riduzione dei conflitti e alla cooperazione.
La scuola deve sin dall’inizio “alfabetizzare”le emozioni, insegnare alle bambine e ai bambini a riconoscerle e soprattutto a gestirle…. e ai più piccini e alle più piccine l’intelligenza del cuore non si spiega… ma si testimonia…
Come?
Con l’esempio!
Un’insegnante serena, autorevole, gioiosa, di abbondanti sorrisi, che parla delle proprie emozioni e invita alunne e alunni a verbalizzare le loro certamente farà la differenza!
Purtroppo il malessere emozionale nella nostra società è in forte crescita e i segni sono tangibili ovunque e sempre… la violenza e la brutalità a cui assistiamo tutti i giorni ne sono la prova.
Tutto ciò non fa altro che suggerirci di insegnare alle bambine e ai bambini l’alfabeto emozionale e le capacità fondamentali del cuore…. è bene che imparino sin da piccoli a controllare i loro sentimenti negativi, a conservare il loro ottimismo, ad essere perseveranti nonostante le frustrazioni, ad aumentare la loro capacità ad essere empatici, a prendersi cura degli altri e a cooperare e stabilire legami sociali.
Solo puntando sui bambini e sulle bambine potremo sperare in un futuro più sereno.
Nb: le persone che al mondo hanno più successo hanno una spiccata intelligenza del cuore!
Le aziende più all’avanguardia del mondo, nella loro selezione del personale, valutano, prima di tutto, l’intelligenza emotiva dei candidati.
I leader in genere hanno una spiccata intelligenza emotiva.
Giusi Lo Bianco

RaccontateVI

Quando lessi per la prima volta “Novecento”, uno dei capolavori letterari di Baricco, rimasi molto colpita da queste parole: ” Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”.

Ognuno di noi è protagonista della propria particolare storia e nel raccontarla si attiva un processo di riscoperta che permette nuove vie per esprimere la propria identità e la propria soggettività.

La vita è storia, la scienza è storia, noi siamo storia…Narrare il nostro vissuto ci mette in contatto con la parte più intima di noi stessi e ci permette di instaurare un legame indissolubile col mondo esterno.

Tra i primi ad attribuire un valore terapeutico alla narrazione fu Jerome Bruner, psicologo statunitense, che ha apportato un grande contributo allo sviluppo della psicologia culturale e della psicologia cognitiva nel campo della psicologia dell’educazione.
Lo studioso riconosce alla narrazione un ruolo e un’importanza fondamentali, sia a livello individuale sia culturale. Egli ipotizza l’esistenza di un pensiero narrativo cioè di una predisposizione dell’individuo ad organizzare l’esperienza in forma narrativa.
L’essere umano ha bisogno di dare forma e senso alla realtà e al proprio agire, di comunicare agli altri i significati colti nell’esperienza, di mettere in relazione passato, presente e futuro.
La narrazione, secondo lo psicologo, favorisce la costruzione dell’identità; il sè, difatti, prende forma e si struttura attraverso il raccontarsi agli altri, mediante un processo di negoziazione di significati. Narrando la propria storia il soggetto attribuisce al proprio mondo e alla propria cultura un significato.

Bruner parla di un “sè narratore”che ha lo scopo di raggiungere la “verità narrativa”, una verità storica che comprende non solo ciò che siamo stati, ma anche le anticipazioni di ciò che saremo.
Presso la Facoltà di Medicina della Columbia University, è persino nato il “Movimento di Medicina Narrativa” fondato dalla dottoressa Rita Caron che cura il paziente mediante un processo di ascolto che si basa su una tecnica di conversazione molto raffinata che conduce il medico a capire, mediante l’ascolto delle proprie emozioni e di quelle del paziente, diagnosi e relative azioni terapeutiche mediante “una storia” come atto interpretativo.

D’altra parte la radice etimologica di “narrazione” è “gnarus” che significa “competente”, “informato”. La prima forma di competenza è “sapere agire”. Il contrario di narrare, quindi, non potrebbe altro che essere “ignorare”.
Raccontate…VI!

Giusi Lo Bianco

Dialogando

L’educazione, secondo Platone, è una scienza che ha per fine l’anima e va “curata” tramite il dialogo filosofico. La sua filosofia più alta è certamente contenuta nei Dialoghi. Platone ha scelto la forma del dialogo, perché in esso ha visto il vero metodo della filosofia; il dialogo, infatti, presuppone un io e un tu.
Da un lato “logo” ossia “discorso”, dall’ altro “dia” ossia “tra”, il dialogo è sempre uno scambio comunicativo “tra” due o più persone e, per essere reputato tale, non può essere mai nè preconfezionato nè rigido, ma sempre in divenire. Anche il dialogo con se stessi è autentico solo nella misura in cui si arriva a livelli di consapevolezza maggiori di quelli iniziali.

Martin Buber è universalmente considerato il filosofo del dialogo. Nato a Vienna da una famiglia ebrea nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965, ha maturato il suo pensiero filosofico, pedagogico e teologico durante il periodo delle due guerre; tali esperienze certamente hanno contribuito notevolmente alle sue riflessioni di cui ogni educatore oggi fa tesoro.
Buber contrappone il dialogo “Io – Tu” basato sul riconoscimento dell’altro quale persona, al monologo “Io – Esso” dove invece l’altro viene trattato come oggetto. Questa è una distinzione fondamentale per chi si occupa di educazione, dove chiaramente servono dialoghi e non monologhi.
Ma cos’è che trasforma l’Esso in Io?
Innanzitutto un ascolto profondo dell’altro, un ascolto che presti attenzione alle sue parole, ma anche ai suoi gesti e alle sue espressioni. Fondamentale inoltre un atteggiamento di apertura privo di preconcetti e pregiudizi senza pensare di sapere ciò che l’altro sta per dire.
Non si può poi escludere la curiosità nei confronti dell’altro, la vera volontà cioè di conoscere i suoi pensieri e le sue emozioni.
Infine, ciò che completa il dialogo, è la fiducia: considerare l’altro un soggetto capace di portare un proprio punto di vista.

É chiaro che se trattiamo un bambino come un “tu”, a sua volta lui imparerà a trattare gli altri come persone.
Molti atti di aggressività e bullismo possono essere riletti alla luce di questa “oggettivazione” dell’ altro, un altro privo di pensieri ed emozioni.
Quante volte il nostro dialogo con l’altro è “Io -Tu”?
Quante volte è “Io – Esso”?
Trattare l’altro come Esso adattandosi alle nostre esigenze è certamente più semplice.
Accettare le diversità del tu e ricercare le innumerevoli modalità di convivenza è molto più impegnativo e alla base di un dialogo autentico.
Giusi Lo Bianco

Insegnare in carcere

La causa di tutti i mali è l’ignoranza; le persone ignoranti sono predisposte a commettere reati di vario tipo, a volte gravi o gravissimi, lo fanno senza rendersene conto, convinti che certe cose si possono fare e basta. Una vita senza alternative sane, belle e buone alla devianza, può avere conseguenze disastrose, tra cui un’esperienza detentiva in un carcere.

Il carcere, per un minore, è l’anticamera della morte, é come camminare in mezzo ad un campo minato e sperare di calpestare la mina per farla finita; alcuni trovano la forza e soprattutto il coraggio di agire per proprio conto chiudendo definitivamente la partita nella totale indifferenza di tutti.

La legge comunque non ammette ignoranza, chi sbaglia deve pagare ed è giusto così, anche se a pagare, spesso, sono solo i “diseredati”. La legge dice anche che i carcerati devono essere rieducati e preparati per affrontare la nuova vita, una volta espiata la pena. Lo Stato assicura ai carcerati corsi di formazione professionale, attività socio- culturali di vario tipo, consente anche attività lavorativa retribuita; tutte opere intese alla rieducazione del condannato. Queste attività vengono svolte da insegnanti, educatori, volontari ecc…

Una particolare attenzione va rivolta agli insegnanti poiché non svolgono solamente opera istruttiva, didattica ed educativa, ma sono anche bravi psicologi e pedagogisti che riescono a creare delle relazioni educative efficaci e idonee al cambiamento.

Interessantissimo, commovente e molto coinvolgente emotivamente, a tal proposito, è il libro di Mario Tagliani, Il maestro dentro, add Editore.

Mario Tagliani va seguito e non va perso di vista. Ci ha aperto i cancelli del Ferrante Aporti, l’Istituto penale per minori di Torino. Gli stiamo dietro nei corridoi, nelle celle, nelle aule in cui insegna italiano e matematica e nel cortile dove lo sguardo si allunga al cielo e il pallone è metafora di vita.

L’autore ci insegna che un insegnante in carcere è molto più di un insegnante…deve affinare l’arte dell’ascolto, deve essere in grado di raggiungere tutti i ragazzi, ma proprio tutti, anche quello più spavaldo, arrogante, provocatore, che sfida, che disturba, che per un momento lo fa pentire amaramente di aver scelto questa strada…questo lavoro tra gli ultimi, tra i disperati, che gli insegna però a sospendere ogni forma di giudizio. Non spetta a lui giudicare, è lì solo per dare un’alternativa, per testimoniare che un’altra strada c’è…

In carcere si impara anche a seminare senza la benché minima pretesa di raccogliere e qualora una raccolta ci sarà non spetterà certo al seminatore. In carcere si impara ad attendere….a raggiungere un obiettivo educativo senza ricorrere agli agenti di Polizia, ma con l’autorevolezza, la fermezza e l’empatia.

Un insegnante in carcere deve sostituire la routine con altri percorsi che sappiano catturare l’attenzione, che facciano sentire i ragazzi in grado di apprendere, crescere e mutare; deve scovare le risorse nascoste inevitabilmente presenti in ogni ragazzo, deve saperle attivare e deve fargli capire che sono il suo bene più prezioso, un capitale che nessuno mai potrà sottrargli.

Un Insegnante in carcere deve accogliere rabbia, disagio e dolore e deve credere comunque nella bellezza: nella bellezza, nonostante tutto.

Dedico quest’articolo alla dott.ssa Milena Mormina, dirigente della Casa Circondariale Piazza Lanza di Catania. Da quell’esperienza ho imparato che chi nasce tondo può morir quadrato!

Giusi Lo Bianco

Educo…quindi amo

Educo quindi amo…sin da bambina sapevo cosa volevo fare nella vita: il mio posto nel mondo era tra banchi, lavagne, libri e colori….il luogo più bello dopo la  mia casa per me è la MIA scuola.

L’ho pensato a 3 anni all’ingresso alla scuola materna e ne ho avuta profonda certezza a 23 quando per la prima volta delle piccole creature mi hanno chiamata “maestra”! Indescrivibile l’emozione provata…è come se si riuscisse ad abbracciare l’universo in tutta la sua meraviglia, come se si raccogliesse tutto lo stupore del mondo tra le mani.

Una maestra crede sempre nel bello, nel vero e nel buono e ha la certezza che il mondo possa cambiare e diventare migliore proprio perchè vive a contatto con i bambini! E da quando, per la prima volta, chiamai “maestra” la signora Letizia, la mia insegnante di scuola materna alla Nazario Sauro (Catania), la mia vita ha scelto un progetto che non avrà mai fine. Diploma magistrale, laurea in scienze dell’educazione, master in pari opportunità e bla bla bla perchè se ami questo lavoro non puoi mai smettere di studiare, leggere, aggiornarti, imparare, metterti in discussione, evolverti…insomma un continuo divenire! 2 i miei “alberi maestri” in questa avventura di vita: Maria Montessori col suo matrimonio d’amore tra libertà ed educazione e San Giovanni Bosco col suo sposalizio passionale tra educazione e “cuore”.

Questa è la maestra Giusi…vi terrò compagnia ogni sabato scrivendo di pedagogia…la scienza dell’educazione per eccellenza che contiene il bello di tutte le altre scienze…un pò ‘ come una scuola con un teatro e un giardino contiene tutto il bello della vita…

Giusi Lo Bianco